
La storia moderna ha visto e continua a vedere numerosi eventi frutto dell’odio razziale, i cui protagonisti sono individui singoli o più frequentemente gruppi politici organizzati.
Razzismo era quello che indusse la Germania, sotto la guida del III Reich, ha strutturare un vero e proprio sistema di eliminazione delle collettività ebraiche e di altre minoranze, determinando le tragiche conseguenze oggi sotto gli occhi di tutti (o quantomeno di chi vuole tenerli aperti). Le stesse ideologie si diffusero in altri Stati, anche se con un’adesione collettiva meno accentuata: si pensi alle leggi razziali fasciste in Italia (con annesse deportazioni di massa, campi di prigionia o di concentramento –vale la pena di ricordare, anche a rifiuto di tendenze grossolanamente revisioniste, la risiera di San Sabba a Trieste).
Queste ideologie, supportate da teorie scientifiche oggi universalmente rifiutate, sostenevano la superiorità della cosiddetta razza ariana, geneticamente migliore di ogni altra e per questo investita del dovere di diffondersi egemonicamente, eliminando ogni individuo che non fosse della razza pura.
Queste ideologie, che sopravvivono solo in alcuni gruppi sporadici non solo europei ma anche americani (si pensi al “Ku Kluz Klan”), sono state nel tempo affiancate da altri elementi di discriminazione fortemente legati al contesto sociale in cui vengono partoriti.
È così quindi che, nel mondo moderno, sono individuabili molte altre circostanze nelle quali l’appartenenza ad un gruppo etnico, sociale, religioso o sessuale può essere cagione di considerevoli difficoltà. Nel corso del XX secolo, in Italia, erano di sovente accolti con diffidenza coloro i quali migravano dal meridione verso il nord alla ricerca di condizioni economiche accettabili; e ancora oggi, anche se difficilmente si verificano episodi di evidente discriminazione, certamente non si può sostenere che ogni residuo di essi sia svanito. In particolare alcuni partiti politici (Lega Nord in primis), nel sostenere ridicole teorie secessioniste, non perdono occasione di esaltare la produttività dell’area padana dispregiando quindi chiunque non vi appartenga. Le stesse organizzazioni, casualmente, sono accanite sostenitrici anche di altre paraideologie segregazioniste: si va dagli slogan secondo cui tutti gli extracomunitari sarebbero dei ladri o –ancor più artisticamente- dei terroristi islamici (qui si nota con assoluta evidenza il carattere predominante che giocano sentimenti di paura nella nascita e nella fomentazione di episodi razzisti), a quelli che vorrebbero identificare in ogni individuo non eterosessuale un potenziale pedofilo. Non mancano poi le discriminazioni di chi si riconosce, praticando i culti che ciò comporta, in confessioni religiose associate erroneamente a movimenti terroristici o che, più semplicemente, occupano posizioni minoritarie.
Nuove forme di razzismo vanno infine individuate, seppur con la necessaria prudenza, in quegli atteggiamenti ostracizzanti di chi esclude qualcun altro da un gruppo per il proprio modo di porsi (ad esempio con un linguaggio non conformato alla massa coetanea), oppure a quelle tendenze consumistiche che individuano nelle disponibilità economiche un elemento di giudizio –e quindi anche di emarginazione- della persona.
Fin qui l’analisi di sempre. Ora è però necessario capire quali sentimenti siano alla base di dinamiche discriminatorie e in che modo la vittima risente del comportamento altrui. Inizierei proprio da qui, da quest’ultimo elemento: evitando accuratamente di fare una guerra tra poveri (ma ignorare delle diversificazioni sarebbe disonesto intellettualmente), va rilevato che mentre alcune forme di razzismo colpiscono un individuo in quanto appartenente ad una comunità, e quindi questi ha la possibilità di appoggiarsi su di essa, ottenendo quantomeno un supporto parziale, più la diffusione della comunità si restringe (è il caso di alcuni gruppi religiosi), più l’elemento di sostegno si affievolisce. Così fino a giungere alle discriminazioni sessiste che o vedono la totale assenza di un sostegno all’individuo (nel caso dell’omofobia, innanzitutto), o la presenza di collettività inconsistenti. Questo ragionamento si rivela comunque non rilevante nel momento in cui vanno diffondendosi (è il caso dell’antisemitismo nazista) ideologie razziste che prendono così piede nella collettività da portare alla costruzione di piani eliminatori tanto strutturati da vanificare ogni sostegno che la coesione della minoranza coinvolta possa determinare.
Per quanto concerne invece le ragioni che sono alla base di fenomeni razzisti, le spiegazioni vanno ricercate in motivi di carattere storico e socio-politico. Se l’antisemitismo affonda le sue radici, in Germania, nel malessere economico e nella ricerca esasperata di un capro espiatorio, la diffidenza verso i meridionali al pari della xenofobia oggi (o delle discriminazioni di chi emigrava alla volta degli Stati Uniti in cerca di un lavoro) è frutto della paura del ridursi delle possibilità occupazionali o dell’aumento di fenomeni delinquenziali. Gli elementi di discriminazione sessuale, invece, sono il risultato di una cultura perbenista “dell’imbarazzo”, che invece di indurre alla conoscenza di chi si ritrova a dover vivere serenamente, accettandola, una condizione di diversità nell’orientamento sessuale o nell’identità di genere, ha per secoli favorito –adducendo ragioni mai effettivamente valide- il sorgere di innumerevoli, e spesso fantasiosi, stereotipi. Le tematiche sessuali, come è ovvio che sia, riguardano poi da vicino la sensibilità di ognuno, ed è quindi fisiologico che caratteri che esulano dalla norma –se non apertamente conosciuti- siano difficilmente accettabili.
Spesso, nel contrastare fenomeni razzisti, si ha la tendenza superficiale a negare la legittimità del sentimento discriminatorio che sta all’origine dell’agire ostracizzante: questo è sbagliato e quasi sempre controproducente. Si pensi al luogo comune “tutti gli Albanesi rubano”: è statisticamente dimostrato che, in proporzione, è più facile trovare un Albanese che rubi piuttosto che un Italiano. E certamente non sarà un assunto –per quanto esso possa essere pienamente valido- del tipo “ma non tutti gli extracomunitari rubano, la maggior parte vive onestamente” a rassicurare chi nutre sentimenti discriminatori. La soluzione è da ricercarsi nell’invito ad utilizzare la propria razionalità, a preservare la propria capacità di distinguere caso per caso, di non generalizzare. Ma soprattutto la risposta, tanto a fenomeni delinquenziali quanto agli atteggiamenti razzisti che –più o meno direttamente- ne derivano, va ricercata –di contro agli slogan irrealistici e dozzinali del tipo “mandiamoli tutti a casa”- in politiche informative e di contrasto al disagio sociale.
Qui sta la differenza tra l’agire populista di chi incita i timori ciechi delle persone e quello di chi mira ad individuare soluzioni efficaci dei motivi di scontro tra diverse comunità: il razzismo è un atteggiamento irrazionale, che spinge all’odio ed è maturato nella paura; una politica sana e lodevole deve riportare gli elementi del confronto all’analisi della realtà socio-economica. Se si parte dal presupposto che un cittadino straniero (perché è qui che si concentrano soprattutto gli atti di razzismo) non ha nel suo DNA una predisposizione particolare all’illecito, dato che altrimenti si scivolerebbe nuovamente in ideologie false e pericolose come quella nazista, allora il perché di una maggiore percentuale di cittadini extracomunitari nelle fila della criminalità non può che essere individuato nel malessere economico e nell’arretratezza culturale. La povertà non è mai un alibi; certamente, però, se un ragazzo quindicenne esce dalla propria scuola media in un quartiere popolare di una metropoli come Milano e trova delle strutture che lo accolgono e gli offrono un’alternativa all’agire “da bullo” o da “piccolo criminale”, ci saranno meno probabilità che intraprenda strade pericolose per sé e dannose per la collettività; e ancora, la lotta a forme di sfruttamento a cui sono sottoposte le figure più deboli del mondo del lavoro (come non pensare agli operai edili, quasi sempre immigrati, e quasi sempre in nero) è elemento portante di una politica che nel contrastare l’illegalità fornisca una risposta a quei sentimenti di intolleranza che trovano loro sfogo nell’odio razziale.
Per quanto riguarda le discriminazioni cui sono vittime le persone non eterosessuali, un po’ più di sincerità nel riconoscere le proprie paure ed i propri fastidi, ed un impegno –se non collettivo quantomeno individuale- perché l’imbarazzo non soffochi col silenzio la diversità, basterebbero ad evitare innumerevoli momenti di disagio e di paura che, al pari di ogni altra manifestazione di razzismo, non possono essere tollerati da una società civile e moderna.
Nessun commento:
Posta un commento